
Quindi: partendo dalla necessità condivisa di mettere al centro la persona si riconosce
che punto di partenza è la costruzione di una comunità accogliente e
generativa, promuovendo una cultura di lavoro di comunità che parta dalla normalità e consideri la
fragilità come parte della stessa.
Si riflette sull’ immagine
del lavoro di comunità come lavoro aggiuntivo o come nuova modalità di lavoro.
Si constata che ci troviamo
in una fase di transizione molto faticosa dove le due componenti sono
compresenti in quanto i servizi istituzionali e non sono divisi tra il lavoro
tradizionale e la necessità di uscire
alla ricerca di nuove visioni.
E’ una fase di costruzione
che spinge gli operatori a muoversi verso gli altri soggetti del territorio per
una evidente necessità di cambiamento. Si sottolinea che il territorio risponde
alla richiesta di ingaggio; “le persone se ingaggiate e chiamate rispondo!”.
E’ una modalità di lavoro che
può dare risultati immediati su proposte concrete, mentre invece necessita di
impegno e tempi lunghi sulla costruzione di un contesto culturalmente pronto
all’accoglienza e all’idea di corresponsabilità sui problemi.
E’ importante il modo e la
prospettiva con cui guardiamo al lavoro di comunità; è necessario guardarsi in
modo diverso tra persone e realtà che si conoscono sapendo stare nelle
situazioni; superare il concetto di “mediazione come contrattazione” per
arrivare alla capacità di “saper stare in mezzo”, partire da una posizione di
ascolto e accettare che questo lavoro richiede tempi lunghi e la costruzione di
un percorso che non può essere predefinito. Importante acquisire linguaggi e
capacità di stare con chi è diverso da sé (sociale con sociale e profit con
profit).
Che cosa chiamiamo Comunità,
che cos’è? E’ un concetto che cambia a seconda del territorio di riferimento
e dei suoi confini.
Bisogna tenere conto del
target di riferimento del proprio lavoro in quanto l’esperienza evidenzia che
ambienti diversi (comunità diverse) richiedono approcci diversi e aspettative
diverse. Ad esempio lavorare per costruire solidarietà internamente ad un
condominio ti consente di agganciare persone che magari in una dimensione di
quartiere non sono più spendibili o non riescono.
Si converge sull’importanza
di uscire dal lavoro che ha come riferimento il disagio per andare sempre più
verso la valorizzazione della normalità; aiutare così la comunità a riconoscere
che al proprio interno è normale che esistano persone che vivono situazioni
problematiche. Questo è dato anche dal fatto che oggi il confine tra normalità
e vulnerabilità è sempre più labile.
Si richiama però l’attenzione
a non correre il rischio di un fraintendimento
e cioè di valorizzare la normalità e di trascurare il bisogno che è
comunque sempre presente e richiama a
delle competenze.
Nel lavoro di comunità
si guarda il contesto è però importante
il ritorno di risultato sulle persone, su chi è scivolato nella vulnerabilità
ma anche su chi è in una situazione di fragilità che può esser ancora contenuta
(intercettare le situazioni prima che diventino di disagio).
In questo senso il
coinvolgimento e l’ingaggio risulta più facile quando si parte da azioni
concrete, specifiche e dirette alle persone che neanche su progettazioni ampie
che possono apparire generiche. Accade anche che si sciolgano alcuni nodi per
cui “agisce chi sa fare” e non tanto chi è referente.
Passare dal lavoro sul
singolo al lavoro di comunità comporta un cambio di prospettiva che richiede la
ricomposizione della conoscenza dei servizi e delle risorse; lavorare in comunità
significa che la stessa gestisce oltre alle risorse umane anche quelle
economiche. Si evidenzia come le risorse economiche vengano maggiormente
valorizzate e anche aumentate in un lavoro che ingaggia diversi soggetti;
infatti ognuno tende a d arricchire con il proprio pezzo.
L’esperienza dice che dove
non esiste una visione e un’organizzazione di sistema e una rete efficiente le
risorse si sprecano o devono essere restituite come nel caso del comparto
disabilità gestito dalla Provincia.
Per poter uscire dalla delega
il cambiamento culturale deve essere generale e non solo degli addetti ai
lavori; infatti si dice che le persone sono della comunità perché sono essi
stessi la comunità.
Ci si chiede se tutte le
comunità abbiano delle risorse in quanto a volte sembra che in alcune non ci
sia nulla da cui partire. E’ esperienza comune che di solito si parte da ciò
che si conosce in quanto già attivo, ma che poi esistono anche risorse
informali meno appariscenti (forse nei territori più piccoli). Spesso si cade
nel luogo comune per cui si pensa che ci sia disinteresse verso le persone e le
loro vicende. Bisogna sapersi mettere in ascolto perché in realtà le persone se
ingaggiate rispondono, sapendo anche accettare la frustrazione che la risposta
potrebbe non venire o essere diversa rispetto alle aspettative.
Dobbiamo anche riconoscere
che spesso dove ci sono più risorse si verificano anche sprechi per incapacità
e mancanza di volontà nel saper raccordare e ricomporre; la quantità di risorse
non sempre corrisponde alla qualità del loro impiego.
E’ importante sapere
confrontare le buone prassi provando a mutuare delle esperienze da altri
territori e cercando di sperimentarle in terreni fertili.
Ad un investimento di risorse
non corrispondono sempre risultati immediati, come nel lavoro educativo bisogna
saper aspettare. Questa frase detta da un politico ha evidenziato la necessità
di saper lavorare in prospettiva e per il bene comune e non per risultati
immediati.
Crema, 02/04/2015.
Presenti:
Giovanna Sonzogni Comune di Pandino
Alberto Fusar Poli ACLI
Greta Melli Coop. Sentiero
Elisabetta Mariani Comune di Crema
Simona Scandelli Consorzio Arcobaleno
Paola Frassi Comune di Crema
Antonio Rovida Comune di Casale C.sco (consigliere)
Luisa Scartabellati Coop. Filika
Pietro Bacecchi Dir, scolastico Crema 2
I
facilitori: Veruska Stanga e Paola
Cantoni
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